Parce sepultos

Articolo di Stefano Mentil, Centro Documentazione Pace e Mondialità

Parlare delle vittime è doveroso, certo. Consolatorio, forse. Necessario, per certi versi. Ma purtroppo sembrerebbe inutile. Piano morale e pratico non sempre s’intersecano.

Perciò mi suggerisco d’aver pietà dei morti e m’arrischio a riflettere dei “carnefici”, ossia di ciò che fa a pezzi la carne, l’esistenza, la vita di qualcuno. Il recente caso di cronaca di Palermo mi ha fatto ricordare come sia difficile per ciascuno tenere insieme i pezzi della propria esistenza, far combaciare tra loro dimensioni inconciliabili. Perché se una bambina di 10 anni riesce ad entrare a far parte di una sfida mortale, a desiderare il brivido dell’asfissia, probabilmente significa che di questa vita e delle sue affascinanti contraddizioni, della sua normalissima straordinarietà e dell’eccezionalità ordinaria ben poco siamo riusciti a trasmetterle perché ben poco siamo riusciti a riceverne.

L’irrompere, ultimamente inevitabile, del digitale e del virtuale nelle nostre vite non ha fatto altro che aggiungere un elemento di complessità ad una sostanza di per sé già multiforme e contraddittoria qual è l’essere umano. Non è vero che ci ha semplificato la vita. Se guardo alla vita dei miei nonni, spesso in difficoltà semplicemente con la smart-TV o il telefonino, non la vedo complicata dall’assenza dell’approccio al virtuale, dalla mancanza di dimestichezza con le tecnologie, dall’impossibilità di navigare sul web. Ma la vedo inequivocabilmente ancorata alla realtà, alle sue difficoltà e alla capacità di cercare sempre e comunque una soluzione e spesso di trovarla.

Forse ciò che è mancato ad Antonella non sono state le regole, dei genitori presenti ed affettuosi, ma degli esempi di vita vissuta nel mondo reale, capaci di abitare il silenzio, di fare a meno di continui stimoli e contatti dall’esterno. Di non spaventarsi di fronte alla solitudine. Non sono cose facili per un adulto, figuriamoci per un bambino. Che a questo dovrebbe essere anzitutto educato, prima che alla gestione del digitale, il quale sempre più spesso diviene il fine anziché continuare ad essere il mezzo.

Come mezzo è insostituibile, indispensabile, preziosissimo ed utile oltremodo. Ma il confine è sottile, come tra l’uso e l’abuso. Spesso questo confine è impercettibile, e tanta parte in questo senso ne ha la generazione dei genitori dei nativi digitali, ingannevolmente convinta dal miraggio dell’onnipotenza tecnologica. La quale, ammirata dalla dimestichezza dei propri figli con la teoria, ha finito col dimenticare di sorvegliarne la pratica.

Come non è stato sufficiente essere nati dopo l’avvento del motore a scoppio e della diffusione delle automobili per ritenerci abili alla guida, così non è sufficiente essere un nativo digitale per avere il diritto di maneggiare troppo presto strumenti complessi che aprono finestre su mondi per lo più sconosciuti anche agli adulti.

Quindi i carnefici siamo tutti noi quando crediamo che vita virtuale e vita reale non siano connesse e reciprocamente compenetrate; quando giudichiamo che sia possibile servire a due realtà: quella on line e quella on life, perché o odiamo l’una e amiamo l’altra, oppure ci affezioniamo all’una e disprezziamo l’altra; quando presumiamo che ciò che percepiamo dietro uno schermo non sia la condensazione, spesso esasperata e distorta, di tutto ciò che sta al di fuori di quello schermo e che per proteggerci da quel tipo di messaggio sia sufficiente premere un tasto; quando abbandoniamo noi stessi e coloro di cui dovremmo prenderci cura davanti a mondi sconosciuti ed irreali – ma non per questo innocui – anziché farci compagni nella scoperta di ciò che veramente ci circonda e che non è mai banale.

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