«I poveri e noi»: una riflessione di don Luigi Gloazzo

Pubblichiamo una riflessione del direttore della Caritas diocesana di Udine, don Luigi Gloazzo, dal titolo «I poveri e noi», scritta in occasione della Giornata mondiale dei poveri, fortemente voluta da Papa Francesco. Si tratta di una riflessione articolata, non legata soltanto a una ricorrenza, ma che al contrario vuole sostenere e accompagnare l’incontro quotidiano con le fragilità con cui ognuno di noi – da cittadino, operatore sociale, amministratore o volontario – si misura. Una sollecitazione dunque a prendere consapevolezza delle nostre reazioni davanti ai poveri, ma sopratutto un invito a tessere  con loro relazioni autentiche. Buona lettura!

I poveri e noi

 

La visione biblica ed ecclesiale

Mi chiedo come mai tutta la Bibbia, come un filo rosso che la attraversa, parli dei poveri. Nel documentare, con una lettura di fede, la storia del popolo di Dio, questa ci attesta che essi sono la cartina di tornasole che evidenzia e rivela la autenticità della fede di Israele e quella Cristiana, in lei innestata. La loro presenza, ineliminabile nelle relazioni quotidiane e nella vita sociale, è una costante dalla quale non possiamo prescindere e specchio che riflette l’autenticità della relazione con Dio, il volto senza maschera della società, della Chiesa e di ognuno di noi.

I poveri sono persone, prima di essere un dato da analizzare con gli strumenti delle scienze sociali, pur necessarie nell’evidenziare le dinamiche mutevoli delle povertà.

La visione biblica, evangelica ed ecclesiale aggiunge un ulteriore valore specifico: sono nostri fratelli e sorelle, la nostra famiglia, figli e figlie dello stesso Padre. La stessa fede ci attesta, addirittura, che l’identità di Dio come Padre di tutti, sceglie di comunicarsi nella responsabilità con cui i suoi figli si prendono cura dei fratelli e sorelle più fragili, senza scaricare l’impegno su di lui.

I poveri, secondo le categorie bibliche, sono coloro che accolgono la Misericordia di Dio Padre senza accampare nessuna opera meritoria, senza vantare nulla di se stessi in contraccambio. Sono una presenza che suscita e risveglia le nostre emozioni e convinzioni più profonde.

I poveri destrutturano le immagini prefabbricate e illusorie che ci fanno da filtro per non vedere la realtà dolorosa e interrogante e così non entrare in crisi/ricerca. Il passo evangelico profetizza che li avremo sempre con noi (Mt 26,11).

Alcuni Santi della carità ci testimoniano, per esperienza vissuta, che “sono i nostri maestri”. Non fanno altro che garantirci una continua opportunità di conversione lungo tutta la vita. Ma, mentre alle nostre povertà personali ci abituiamo, impariamo a convivere con loro, a giustificarle o a rimuoverle, per quelle della società incolpiamo i governi e gli operatori “indolenti”, e quelle dei poveri vorremmo risolverle con un gesto magnanimo e risolutorio: una tantum (solamente una volta). Si diventa poveri in un lungo percorso di fragilità e fallimenti e non si risale la china se non con fatica, gradualmente e accompagnati da qualche “buon Samaritano” che si è fermato accanto e non è passato oltre (Lc 10, 25-42).

Le nostre reazioni di fronte ai poveri

Dopo un primo moto interiore di compassione davanti ai poveri, uno dei primi impulsi è attribuire loro la colpa della condizione in cui vivono e di considerarli una zavorra ingombrante nel progresso della società. È un giudizio che cerca di nasconderli, allontanarli dalla nostra costitutiva povertà personale ed esistenziale, della quale ci fanno da specchio. La risposta, poi, più frequente, personale, ecclesiale e sociale, è quella che renderli invisibili o zombi che frequentano i luoghi marginali e periferici, i cosiddetti “non luoghi”. Sono le stazioni, i parchi, i quartieri semi abbandonati, le case dismesse e cadenti, i parcheggi dei grandi supermercati, i greti dei fiumi, le terre del demanio, le discariche, le caserme svuotate, le periferie esistenziali e sociali, in cui rientrano anche i dormitori e le mense pubbliche, gli scantinati degli ospedali, le mense dei poveri, le canoniche dei preti, i conventi dei Religiosi e così via.

La loro presenza ci intriga, la loro visita ripetuta ci infastidisce, le loro richieste di soldi punge la nostra morale e fa emergere il senso di colpa, quando li rifiutiamo e passiamo oltre. Si vorrebbe che i poveri vivessero da un’altra parte, in un altro quartiere, in un posto recintato e periferico senza relazioni e legami con il resto della società e della comunità. La presenza dei poveri è un problema per tutti, in primis per loro stessi.

Poveri si diventa, non si nasce. E le ragioni/cause sono infinite e concrete. Possono scatenarsi per eredità familiare, per mancanza di opportunità, per fragilità emozionali, per espulsioni dai mondi della scuola e del lavoro, per incapacità a gestire i conflitti, per un campionario grigio di frustrazioni e insuccessi. Talvolta la causa va ricercata nell’inadeguatezza a sostenere i ritmi ossessivi della vita lavorativa, nel “lavoro povero”, nella mancanza di adattabilità alle evoluzioni tecnologiche del lavoro odierno. Ci si impoverisce per una malattia cronica sopravvenuta, per anzianità, per superficialità coltivata e nutrita quotidianamente, per non assumersi il peso delle responsabilità, per mille altre ragioni che fanno scivolare le persone lungo un piano inclinato da cui è difficile risalire con le proprie forze.

Il nostro moralismo e la loro povertà di relazioni

A questa complessità di percorsi fanno spesso seguito i moralismi di alcuni di noi benpensanti, di molti imborghesiti, di coloro che “si sono fatti da soli”, che ci fanno pontificare: “dovrebbero essere riconoscenti, dovrebbero essere meno petulanti, dovrebbero andare a lavorare, dovrebbero essere amabili, ben vestiti, puliti, ordinati, organizzati, non bere, non fumare compulsivamente, non stare costantemente sui social, non importunare, non chiedere l’elemosina, non sprecare, non mettere al mondo figli, non ridurre l’appartamento e la casa in condizioni inabitabili, non richiedere il Reddito di Cittadinanza e i contributi statali, non comprarsi le scarpe Nike, non avere l’abbonamento a Skype e alle partite di calcio”. Un elenco di “non dovrebbero” sempre aggiornato!

In definitiva non dovrebbero essere poveri, ma indipendenti e autonomi, capaci come noi, che siamo in grado di far valere le tutele dei nostri diritti di cittadinanza, di avere una residenza e un domicilio certi (non quello della “casa comunale”), di poterci pagare il dentista e accedere alla medicina privata, se quella pubblica sta collassando, di portare i bambini alla scuola privata, di avere una comunità sociale ed ecclesiale di riferimento, con le quali interagire a nostro agio ed essere conosciuti e riconosciuti.

Eppure, ancor prima che per le capacità i poveri sono tali prima di tutto perché non hanno relazioni sociali ed ecclesiali come noi. Non frequentano le nostre liturgie, ma solo i nostri empori. Si conoscono e si frequentano quasi esclusivamente tra di loro ed hanno in comune una lunga lista di fallimenti, di sguardi giudicanti, di solitudini e di risposte negative. Spesso non ci guardano in faccia per non incrociare i nostri occhi alteri e freddi, per non ascoltare i rimproveri, le parole pungenti e indigeste che escono dalla nostra bocca, eruttate dal cuore. Così accade che i poveri li vogliamo lontani, e i migranti che rimanessero nei Paesi del Sud del mondo. Dopo le prime esperienze di accoglienza, frustrate e deludenti, non ci sentiamo più di ricominciare sempre da capo, di “fare i buoni”, ci stanchiamo e moltiplichiamo le obiezioni rivolte alla Caritas, ai suoi Operatori, al Comune, alle Assistenti Sociali e alla scuola perché non farebbero il proprio dovere e mestiere.

Uno stile rinnovato di relazione

Come imprimere un nuovo impulso alle nostre relazioni con i poveri? Queste fiaccano la nostra volontà e questa non riceve più energia dalle motivazioni umane, dalla passione, dal cuore e dalla fede in Gesù Cristo, fratello dei poveri. Negli incontri tra operatori professionali e volontari, condividendo il servizio di accompagnamento, essa chiede di tradursi in un capitale di fiducia reciproca, di rispetto della vita personale e intima dei poveri, senza pretendere di entrare senza pudore nella loro vita privata. Questo significa adoperarsi per consolidare tra operatori uno stile comune, un riconoscimento reciproco dei ruoli e compiti nel servizio, una esperienza e professionalità nei gesti e decisioni che si prendono nei confronti dei poveri e, possibilmente, con loro. Si dovrà passare da uno stile che enfatizza i limiti degli interventi degli altri e criticarli, soprattutto quando non si conosce la storia delle persone; la precarietà della condizione giuridica; le ferite profonde, non ancora rimarginate e, in qualche caso indelebili; la fragilità dei progetti migratori; i confini giuridici che le nostre leggi offrono loro, a uno nuovo dove occorrerà imparare anche a partire dai loro progetti, a lasciarli andare, a non trattenerli in un legame affettivo che può rivelare il bisogno nostro più che il loro.

Potremmo trarre ispirazione dai genitori che accolgono in affido dei bambini. Sanno di averli per un tempo, ma il loro affetto, le loro attenzioni sono efficaci, concrete, a “fondo perso”, gratuite, incondizionate, non possessive. Occorre un allenamento per agire così, per attrezzarci a guardare e accompagnare le persone che incontriamo quotidianamente nelle loro e nostre fragilità. Non si va a scalare una cima molto alta senza essere preparati per lungo tempo (relazione di aiuto). La fatica e l’amore più grande e autentico è quello che accompagna le persone nel tratto più fragile della loro vita, quello che sa stare nella precarietà, nella provvisorietà, nelle relazioni difficili e complesse, nelle differenze culturali e religiose.

Formazione pratica costante

Non è secondario dedicare il tempo necessario ad un percorso di formazione in cui prendiamo in mano i nostri valori e convinzioni di riferimento, le pratiche più efficaci, le nostre personali resistenze, le nostre difficoltà, le nostre reazioni emotive di fronte alle persone povere (impoverite?) e alle loro storie di vita. Non ci si mette a vivere il servizio di volontariato e professionale senza aver esplorato il nostro cuore e le resistenze, più o meno inconsapevoli, che emergono nella relazione di aiuto. Se non accogliamo e gestiamo le resistenze e risposte automatiche che diamo di fronte alle persone che chiedono aiuto, siamo come un panno sporco con cui ci illudiamo di pulire gli oggetti e il pavimento della casa. Non facciamo altro, frustrati, che lasciare tutto come prima o peggiorato e non aiutiamo le persone povere a “ri-pulire” la loro vita.

Dono di beni e dono di sé stessi: tutti sono beni relazionali

Teniamo presente che il più delle volte diamo cose che sono superflue, esuberi che non toccano i nostri taccuini e dispense, ma beni “avanzati, non commerciabili”, che i nostri armadi e i mercati europei riciclano per essere distribuiti ai poveri. È onesto ricordare che chi dona o distribuisce “roba” si pone in una posizione di “potere e superiorità” nei confronti di chi chiede e riceve. Gli Operatori sociali e i Volontari che hanno interiorizzato lo stile di Gesù, amico dei poveri, e lo stile autentico della Comunità ecclesiale, sanno che le raccolte in solidarietà con le Chiese sorelle del mondo, i beni, anche quelli di primaria necessità, sono sempre beni relazionali (anche i soldi), aiutano nelle emergenze ad incontrare le persone impoverite ad uscire dalla dipendenza e dalla marginalità sociale.

A ciò si aggiunge la consapevolezza che, prima di tutto, doniamo noi stessi (come Gesù e il senso dell’Eucaristia), il nostro tempo, la nostra capacità professionale, acquisita nella scuola e nel lavoro, l’abilità nel trovare con perseveranza le strade giuridiche e burocratiche che aiutano ad uscire dalla emarginazione ed esclusione.

Chi si impegna nella politica, come battezzato, ha il compito missionario di progettare leggi giuste che includono gli impoveriti. L’ascolto empatico e l’accesso ai Servizi sociali è frutto di un accompagnamento fraterno al godimento dei diritti civili. I beni materiali primari che cerchiamo di garantire, perché le persone e famiglie possano vivere, sono espressione di una attenzione e prossimità della Comunità ecclesiale e della società civile. Queste trovano nei Volontari ed Operatori stipendiati non solo le mani a disposizione, ma anche l’intelligenza, la professionalità, la riflessione e la passione nel servizio. Non serve a nessuno delegittimare chi “lavora/opera” al servizio dei poveri come professione. Ci sono ruoli diversi che riconosciamo e impariamo a conoscere e rispettare. A maggior ragione è indispensabile conoscere le leggi e le strutture sociali che fanno da cornice ai Servizi e al Volontariato.

Dare un senso alle fatiche nel servizio

I poveri che vivono tra noi sono il volto visibile e presente delle nuove povertà e di quelle tradizionali. È importante renderci conto che la società fabbrica poveri in quantità industriale e che la distanza/forbice tra ricchi e poveri è sempre più strutturale, sfacciata e assimilata culturalmente a piccole dosi di “veleno”. Basta leggere con attenzione i dossier sulle povertà che la Caritas edita ogni anno. Molti sono i poveri del mondo che intercettiamo ormai nei nostri paesi e che, in molti casi, sono di passaggio verso altre terre promesse. Poveri sono i bambini, i ragazzi che abbandonano la scuola, gli anziani soli, le famiglie che non reggono i conflitti della vita, i separati, i falliti, i migranti, i popoli oppressi e impoveriti, le vittime di emergenze umanitarie e climatiche, di persecuzioni “legittimate” da una fondamentalista interpretazione della religione, di violenze etniche, di conseguenze dell’accaparramento delle terre e risorse fondamentali che sostengono il nostro consumismo. Le vittime di speculazioni finanziarie da parte dei colossi economici globali, degli investimenti nella produzione di armi e nel loro commercio in progressiva espansione, della incapacità di ascolto e rispetto dell’avversario o del diverso, dell’esasperazione del conflitto per scopi di potere, fino a trasformarlo in violenza e guerra distruttiva.

Venuti e inviati dalle comunità e ritornati alle comunità

Anche se questo contesto ci può scoraggiare, perché non perseverare nell’imparare reciprocamente, invece di esasperare le criticità? Perché non sostenerci a vicenda invece di delegittimarci senza elaborare le frustrazioni che accumuliamo nel nostro servizio? La fatica può diventare l’occasione per prendere in mano la nostra stanchezza e trasformarla in perseveranza e via di conversione umana, sociale, ecclesiale ed evangelica. Possiamo risciacquare i “panni sporchi” e rattoppare quelli logorati nel gruppo, con concreti percorsi di formazione e cura, prima e durante il servizio. Anche il gruppo ha bisogno di “manutenzione” e chi li coordina ha un necessario compito strutturale ed educativo. I Volontari hanno un mandato ulteriore e imprescindibile. Non solo sono al servizio dei poveri, ma anche quello di animazione delle Comunità ecclesiali e civili, delle quali sono espressione e inviati.

Ricordiamoci l’un l’altro che i poveri sono sempre gli ultimi e chi li serve e li accompagna sulla strada della dignità e della liberazione, non importa se nel nome di Gesù Cristo, come auspico, o di altri valori, profondamente e autenticamente umani, sono sempre i penultimi. Sono coloro che operano nelle famiglie con i poveri di casa (dove nasce, vive e prende senso il Volontariato), nel sociale e sanitario. Accudiscono gli anziani, i migranti in attesa di un appuntamento per un permesso di soggiorno, i senza dimora, le mense dei poveri, i “Pan e Gaban” e gli Empori. Sono gli infermieri e medici, gli operatori sociali, i Volontari delle parrocchie, le Badanti. Molte di queste categorie vengono riconosciute e trattate dalla società con paghe di miseria e sono a rischio di stress per sovraccarico di lavoro. Esprimo una vicinanza fraterna agli ultimi e un riconoscimento grato ai penultimi! Il senso finale di tutto quello che facciamo lo troviamo nell’incontro tra fratelli e sorelle e nascosto dentro il cuore dello stesso servizio.

A Natale e nelle feste, quando apriremo un pacco regalo, non solo ci sorprenderemo per il dono in sé, ma per il valore della relazione con chi ce lo ha donato. E da questo possiamo risalire fino al Padre che ci offre in dono, gratuitamente e per amore, suo Figlio Gesù.

Don Luigi Gloazzo

Direttore Caritas diocesana

Centro Missionario

 

 

 

Udine 19.11.2023

XXXIII domenica durante l’anno

VII Giornata mondiale dei poveri

 

Foto di Mihály Köles su Unsplash

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