Accorgersi significa rendersi conto, a un tratto, di qualcosa che prima non si era osservato o che si ignorava. Ossia uscire volutamente dal conforto dell’abitudinarietà e della regolarità, del prevedibile e del controllabile.
Etimologicamente contiene in sé il verbo corrigere, correggere, quasi a marcare la distanza tra un prima contaminato dall’errore o quanto meno dall’ignoranza e un dopo consapevole e quindi necessariamente incline al cambiamento, a correggere la rotta delle nostre esistenze, non perché sbagliata ma perché non vissuta in pienezza, perché priva di quel grado di libertà che le permette di raggiungere sicuramente la mèta.
Accorgersi prevede perciò una propensione da parte nostra a volgere lo sguardo altrove, a lasciare aperte altre possibilità oltre a ciò che vorremmo accadesse. Accorgersi è un atto della mente, la quale acquista coscienza di un fatto attraverso indizi o riflessioni. Ma che non può restare tale, perché deve spingere il corpo ad agire, se davvero si tratta di una presa di coscienza di un problema cui possiamo realmente porre rimedio.
Gesù invita alla vigilanza, alla capacità di cogliere ciò che accade sotto i nostri occhi ma che ci sfugge, per tante ragioni. Il suo è un invito all’attenzione, al non fermarci alla superficie degli eventi e delle relazioni che costellano la nostra vita, ma a leggerle in profondità, laddove spesso si nascondono le sfaccettature meno vivaci delle nostre esistenze: le fragilità, i fallimenti, le paure… In quell’interiorità che a volte non riusciamo a mappare completamente, ma di cui ciascuno ha chiara esperienza; in quel dentro dove a volte ci si sta male, da cui preferiamo fuggire perché è lì dentro, in quel caotico ginepraio di pensieri che le domande a cui non abbiamo ancora trovato risposta si affastellano, si confondono, si complicano vicendevolmente. L’invito invece è quello di abitare quell’apparente deserto interiore, così da abituare lo sguardo ad accorgersi di ciò che apparentemente non c’è, come fanno i nostri occhi nel buio, quando a poco a poco divengono maggiormente sensibili a fonti luminose altrimenti impercettibili.
Ci vuole tempo per affinare capacità come queste.
E il tempo, spesso, è l’unica cosa che non ci diamo.
Ma è anche l’unica cosa di cui avremmo bisogno.
Gesù invita alla vigilanza, perché non sappiamo quando verrà. Anziché fornirci data e ora, ha preferito restare vago, non per cattiveria ma per insegnarci il valore dell’uguaglianza non solo in senso orizzontale, tra coloro che circondano la nostra vita, a volte la intercettano, altre ci impattano contro; ma anche in senso verticale, superando appunto la barriera del tempo e mettendo tutte le generazioni nella stessa condizione di attesa. Permettendoci così di inserirci in quella speranza che pervade la storia da quando pronunciò quelle parole.
Facendoci sperimentare il paradosso delle diversità, l’intreccio tra l’ordinarietà dell’apparenza e la straordinarietà di ciò che risiede dentro la profondità di ciascuno. Ma soprattutto lasciando senza risposta numerose domande, a partire da quella sul quando “verrà”, al punto da non coniugare il verbo al futuro, come sarebbe logico aspettarsi relativamente ad un evento che non è ancora avvenuto, ma al presente: “nell’ora che non immaginate viene il Figlio dell’uomo”.
Semplicemente perché la fine del mondo avviene ogni giorno, in tutte le esperienze di male di cui preferiamo non accorgerci e in cui non interveniamo, in cui non mettiamo in gioco la nostra libertà per paura di perderla e in realtà avendola così già persa.
Semplicemente perché il Figlio dell’uomo ci viene incontro in ciascuna relazione che intercetta la nostra vita.
Altra domanda senza risposta è quella di chi verrà preso e di chi verrà lasciato. L’apparente contraddizione dell’uguaglianza espressa prima trova senso nell’impedire a ciascuno di sentirsi “a posto”, ormai garantito nei propri diritti. Quasi che dinnanzi a Dio non esistessero diritti, ma solo l’opportunità di accorgerci che quanto ci spaventa e ci fa paura non è necessariamente qualcosa di malvagio che va a tutti i costi evitato. Alle volte è proprio la paura che ci permette di accorgerci di quanto normalmente passerebbe inosservato, perché attiva capacità di percezione e di riflessione altrimenti latenti.
I segni ci sono già, nella quotidianità dell’esistenza di ciascuno: “fino al giorno in cui Noè entrò nell‘arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti”. Alle volte sono talmente assurdi che è tanto impossibile non accorgersene quanto improbabile riuscire a dargli credito. Quando si rivelano in tutta la propria cruda banalità, allora spesso è troppo tardi per correre ai ripari.
La libertà, alle volte, è ciò che paradossalmente ci impedisce di cogliere questi segni, di accorgercene.
Per il semplice fatto che ci è concessa anche la possibilità di non farlo. Dall’altro lato, sapere quando il Figlio dell’uomo viene, sapere chi verrà portato via e chi lasciato impedisce proprio l’esercizio di questa libertà. E della responsabilità che ne discende. Perché se tutto è prevedibile, di più, se tutto è già stabilito a priori, nulla sarà diversamente da come dev’essere. E qualsiasi cosa noi possiamo fare non modificherà il corso degli eventi. In realtà non è così. Ed è proprio dalla dimostrazione di questo principio che trasuda tutta l’umanità di cui ciascuna pagina del Vangelo è permeata: non si tratta di offrire formule magiche o sterili profezie quale soluzione alle ferite dell’uomo ma di porlo costantemente dinanzi alla profondità della propria libertà e alla grandezza della propria responsabilità.
Dinanzi ad entrambe possiamo solo rabbrividire di paura e al contempo ribollire di speranza, perché l’invito che ci viene rivolto è quello di prestare attenzione, di vegliare, di accorgerci di quanto ci accade attorno e di non temere se quanto scorgiamo ci spaventa e se vorremmo far finta di non vedere, se preferiremmo coccolarci nella nostra indifferenza anziché volgere lo sguardo altrove, perché è ciò che non immaginiamo che potrà davvero sorprenderci. Avere paura fa parte della nostra natura umana, è funzionale e a tratti indispensabile. Ma non è l’ultimo sentimento che il nostro cuore può sperimentare.
Non si tratta di sapere quando qualcosa accadrà e cosa accadrà, ma di accorgersi che qualcosa sta già accadendo.
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