Essere giovani è roba da grandi

Autore: Stefano Mentil, Referente Centro Documentazione Pace e Mondialità Caritas diocesana di Udine

giovani in Italia

L’età giovanile vede sempre più sfalsati i propri riferimenti. Sia quelli temporali che quelli morali. Ad essere giovani si inizia più tardi rispetto al passato, sia perché i tempi dell’adolescenza si sono drammaticamente dilatati sia perché la concretizzazione di un traguardo un tempo normale e quasi scontato, come il passaggio all’età adulta, è sempre più procrastinata nel tempo a causa della difficoltà a raggiungere l’indipendenza, non solo economica. Ma anche smettere di essere giovani è un passaggio che avviene sempre più rimandato: da un lato c’è il mito dell’eterna giovinezza da rincorrere, dall’altro l’incapacità di affrancarsi da una condizione che per aprirsi alla fase successiva ha bisogno di veder maturare tutti i propri frutti, pena il portarsi appresso dei vuoti che rischiano di essere colmati con i riempitivi sbagliati. Nel frattempo capita però che chi non è (ancora) diventato adulto debba esserlo perché qualcun altro gli è succeduto nel cammino della vita. Ed è qui che si innescano alcuni problemi.

I giovani non rappresentano solo il futuro di una società. Ne sono lo specchio più crudele. Qualsiasi cosa facciano o non facciano, che sognino o a cui rinuncino dimostra quanto chi li ha chiamati a questa vita ed allevati si sia limitato o meno a queste funzioni. La capacità di sognare, il desiderio di farlo e la necessaria possibilità di non vedere sistematicamente frustrate le proprie aspirazioni non dipendono dal caso, ma da coloro che ne sono i primi responsabili, cioè gli adulti. E non mi limito ai legami familiari, come i genitori e i nonni (indispensabili, imprescindibili oserei dire, soprattutto perché rappresentano un’occasione di contatto con una realtà “altra”, distante temporalmente e proprio per questo analizzata con maggior obiettività e foriera di un bagaglio esperienziale impareggiabile). Ci sono anche i legami sociali, incarnati dai maestri, dai professori, dagli educatori. La cui selezione, forse, è sempre più scientifica (perché rispetta giustamente requisiti e capacità pratiche) ma sempre meno umana (perché dimentica di attitudini e vocazione). Chiunque oggi, e forse questo non è necessariamente un bene, può costruirsi la propria cattedra mediatica senza tuttavia aver accumulato la necessaria esperienza, le competenze e soprattutto senza aver riflettuto su contenuti e forme di ciò che trasmette. Ci sono molti maestri in giro, ma quelli davvero buoni sono difficili da scovare, anche perché una delle loro caratteristiche è quella di non credere di esserlo e quindi di non proporsi.

I numeri

Un dato per toccare con mano l’idea di futuro a cui stiamo pensando e che stiamo costruendo è quello della disoccupazione giovanile: nel 2018 si è attestata al 32,2% a livello nazionale per i giovani tra i 15 e i 24 anni, al 23,7% a livello regionale sempre  per la medesima fascia d’età (dati I.Stat, 2018). L’incremento rispetto al 2008 è dell’11% a livello nazionale e del 10,5% a livello regionale, con un picco al 42,7% nel 2014 ed una tendenza a calare negli ultimi anni. Quando il lavoro c’è, non necessariamente è tale da predisporre al futuro: tra il 2008 e il 2018 sono aumentati del 33% i contratti a tempo determinato a livello nazionale (41% a livello regionale), mentre quelli a tempo indeterminato sono diminuiti di quasi il 2,3% (quasi 5% in Friuli Venezia Giulia). Quindi c’è meno occupazione per i giovani ed è più precaria. Quale futuro ci si può aspettare, quali sogni alimentare con queste prospettive?

Si innesca così un gorgo turbinoso che non lascia spazio alla speranza: da un lato le difficoltà nell’ingresso e nella stabilizzazione all’interno del mercato del lavoro alimentano l’idea che sia sempre più complicato predisporre il futuro, dall’altro l’inappetenza del futuro non stimola ad un impegno ulteriore per tentare di superare quegli ostacoli che oggi più che ieri si delineano all’orizzonte. I NEET, ossia coloro che non studiano né lavorano, nella fascia d’età da 15 a 34 anni, hanno raggiunto nel 2018 il 24,8% in Italia e il 14,5% in Friuli.

Lo studio fa la differenza

Se manca un’idea di futuro manca anche un impegno nel presente. Appare inutile muoversi verso una méta che non si rintraccia all’orizzonte, forse anche perché non si vede nemmeno l’orizzonte. L’occupazione (che non si riduce al lavoro retribuito tout court) non rappresenta solo una fonte di reddito e quindi il mezzo per una vita dignitosa, è ciò che insieme ad altre dimensioni imprescindibili (come l’amore, la salute, le relazioni, le passioni, gli interessi…) dà senso alla vita perché la affama di futuro, la “costringe” ad immaginare e la stimola a proiettarsi oltre il qui ed ora. Soprattutto le permette di fare tutte queste cose perché fornisce gli strumenti. È perciò al tempo stesso mezzo e fine. Non solo mezzo, perché altrimenti può essere ridotto alle forme più aberranti. Non solo fine, per non oscurare tutte le altre dimensioni che costellano ciascuna esistenza.

Anche lo studio è occupazione, mezzo utilissimo al fine dell’ottenimento di un’occupazione, ma fine esso stesso, capace di stimolare la mente ed il cuore, di affinare il senso critico e di ampliare la mente, di sfamarsi e di affamarsi ancor di più. Fondamentale per la condizione occupazionale è perciò l’istruzione: Almalaurea ha pubblicato il rapporto annuale sul profilo dei laureati da cui emerge come la percentuale degli occupati vada progressivamente aumentando rispetto al momento della laurea: ad 1 anno dal conseguimento del titolo lavora il 44,1% degli intervistati, a 3 anni il 68,9% e a 5 anni il 76,4%. Ci vuole perciò più tempo per trovare il proprio posto nel mondo del lavoro, ma una volta trovato questo si dimostra maggiormente adeguato non solo agli studi e alle aspirazioni, ma anche al contesto in cui ci si trova a vivere, con retribuzioni nette medie che vanno dai 1.113€ ad 1 anno dalla laurea ai 1.448€ a distanza di 5 anni.

Lo studio non può certo sostituire i riferimenti generazionali che talvolta mancano o correggere scelte politiche infelici del passato che iniziano a poco a poco a dimostrare i propri effetti sul lungo periodo e perciò sulle generazioni future di allora, ormai “generazioni presenti”. Ma può impedirci di continuare su una rotta fallimentare, aprirci opportunità e stimolarci a non arrenderci all’evidenza di un mondo con la data di scadenza sempre più prossima. Ciascuno ha bisogno di riferimenti, sia per conservare che per innovare. Se non ci vengono dati, vorrà dire che li elaboreremo da soli, iniziando ad essere adulti mentre ancora potremmo essere giovani.

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