La dimensione psicologica di una persona è uno dei pilastri fondamentali che rendono possibile lo sviluppo delle potenzialità intrinseche della vita donata ad ognuno di noi. La salute ed il benessere psicologico è un diritto dell’uomo ma come può, un uomo proveniente da contesti deprivati da ogni parvenza di umanità e legalità, farsi carico dei propri vissuti in una terra straniera? Le speranze di miglior vita sono un sogno, un miraggio non sufficiente per tamponare o superare le lacerazioni della paura, dell’assenza, del viaggio alla cieca. In Caritas, la dimensione psicologica di una persona ricopre una grande importanza ed è per questo che le nostre equipe vengono seguite da vicine da uno staff di psicologi e psicoterapeuti in supporto all’operato diretto con i richiedenti asilo. A loro e agli operatori è dedicata questa intervista con la speranza che possa raggiungere anche te, lettore silenzioso, nella scoperta delle persone oltre gli stereotipi.
- Buon giorno Danila! Sei stata psicologa e psicoterapeuta in Caritas per diversi anni e ti sei occupata del supporto psicologico di molti utenti. Aiutaci a conoscere meglio questo lavoro e come può essere un valore aggiunto per il territorio ospitante.
All’inizio mi occupavo principalmente del servizio psicologico rivolto a tutte le persone richiedenti asilo politico che vengono accolte nel progetto di accoglienza Caritas, in stretta collaborazione con le equipe operative dislocate sul territorio di Udine. Nel primo colloquio l’obiettivo è presentare e chiarire la figura professionale dello psicologo (ruolo, funzioni, aspettative, distinzioni con altre figure professionali) e fornire alla persona “uno spazio di parola e di ascolto” dove poter fermarsi e avere la possibilità di sentirsi, ripensare e comprendere quanto vissuto fino ad ora e riuscire a dare un senso.
Le persone raccontano delle motivazioni per le quali hanno lasciato il loro Paese, del lungo e insidioso viaggio che hanno dovuto affrontare e delle inevitabili difficoltà che incontrano anche giunti in Italia: la barriera linguistica, la lontananza dai familiari, le nuove abitudini, le nuove istituzioni, gli operatori stranieri, gli altri ospiti con i quali dover rapportarsi. Il bagaglio del passato carico di esperienze dolorose e traumatiche si scontra con il “nuovo” del “qui e ora”. La posizione di richiedente asilo politico, per tutte le caratteristiche delineate, è una condizione stressante e aumenta le probabilità di sviluppare disturbi psicologici.
In questa cornice emerge lo stress e i primi segnali di disagio delle persone. I sintomi si manifestano proprio quando la persona si trova in un contesto protetto, perché non vive più in una situazione di allerta e pericolo, dove è necessario scappare e non si ha tempo per fermarsi a riflettere. Per questo motivo è in questo momento che calano le difese ed emerge tutta l’angoscia, la paura, i vissuti emotivi delle persone. Il colloquio ha l’obiettivo di individuare i sintomi e le fragilità connesse, comprendere se la persona ha sufficienti capacità resilienti, in che modo sostenerla nel periodo dell’accoglienza e definire percorsi individualizzati.
Nella valutazione è importante riconoscere se i sintomi sono transitori o se ricollegabili alla diagnosi clinica di Disturbo post traumatico da stress (DSM 5), che può essere certificata a seguito di una approfondita valutazione psicodiagnostica e utile per la Commissione territoriale per aiutare a comprendere, come spesso accade, le difficoltà che le persone manifestano nel narrare la propria storia. Il momento dell’audizione in Commissione per le persone traumatizzate rappresenta un momento complicato e di difficile gestione emotiva poiché riapre una ferita che spesso non è stata ancora elaborata. Per questo motivo può presentare delle lacune memoniche e poca linearità nel racconto perché la persona non riesce a ricordare l’evento traumatico.
- Quali sono i sintomi che si presentano con più frequenza nelle persone richiedenti asilo?
I primi segnali di disagio si manifestano nella difficoltà nel sonno, nel cambiamento del comportamento (isolamento, ostilità, provocatorio, apatia) e del tono dell’umore. Il rilevamento di questi segnali avviene grazie all’osservazione attenta e preziosa degli operatori nei CAS che quotidianamente incontrano le persone e le inviano al servizio psicologico per un approfondimento. I sintomi ansiosi, depressivi, psicosomatici sono l’espressione di una sofferenza legata al passato, dell’attesa per i documenti che li sospende come in un limbo senza un’effettiva progettualità e che generano quindi ansia, frustrazione, impotenza rispetto al controllo sul proprio futuro.
- Da cosa nascono questi sintomi?
Dalla raccolta anamnestica è possibile riscontrare il denominatore comune della violenza in tutte le sue forme: maltrattamento fisico e psicologico, percosse, persecuzioni nel Paese di origine, abusi sessuali, segregazioni e torture.
- Quali strumenti vengono utilizzati a supporto delle persone?
Il colloquio clinico è uno degli strumenti utilizzati in sinergia con i mediatori culturali che fungono da filtro nell’interazione e permettono la comprensione del contenuto linguistico e culturale. Nei casi complessi definiti con il termine di “doppia diagnosi” ovvero persone con disturbo mentale e utilizzo di sostanze stupefacenti è necessaria una presa in carico multidisciplinare, che coinvolge la presenza e collaborazione dei servizi territoriali (CSM, SERT, Consultorio, SPDC). In questi casi sono importanti ed efficaci incontri di equipe alla presenza di differenti figure professionali per fare degli esempi: mediatore, psicologo, operatore, referente di struttura, equipe legale, medico, psichiatra, in base alle necessità perché ognuno svolge una funzione e aiuta la persona a sentirsi contenuta a livello emotivo e ad avere una restituzione rispetto al comportamento. A livello psicologico è importante mantenere unità e coesione tra i professionisti per restituire alla persona chiarezza e ordine ed evitare triangolazioni che aumentano la confusione mentale dell’utente.
In alcuni casi è stato possibile l’utilizzo dell’EMDR (Eye Movement Desensibilation and Reprocessing, Riprogrammazione e desensibilizzazione attraverso il movimento degli occhi) una tecnica utilizzata per l’elaborazione delle esperienze traumatiche.
- Cosa si può considerare un successo in questi percorsi?
Si potrebbe fare una distinzione fra la remissione del sintomo ed un concetto più ampio di benessere della persona. Infatti la scomparsa della sintomatologia non significa per forza la felicità o l’integrazione e realizzazione della persona.
- Secondo la tua esperienza diretta sul campo, lavorare con persone profondamente traumatizzate o in una fase di vita transitoria e così aleatoria cosa ha rappresentato per la tua crescita professionale?
Lavorare in questo settore mi ha sradicato completamente dalla visione di setting ortodosso ovvero è stato necessario creare un buon rapporto di fiducia e stima reciproca con i mediatori culturali che sono sempre presenti in ogni colloquio. Questo ha certamente messo in discussione il mio modo di lavorare e mi ha obbligato a trovare un nuovo stile, diverso. Nuove modalità di intervento che mi hanno portato ad incontrare anche i nuclei familiari, ospiti nei CAS, con visite in struttura dove il momento mensile dedicato all’assemblea era utilizzato per favorire l’integrazione e la convivialità fra le famiglie di culture differenti. L’incontro avveniva alla presenza dei mediatori culturali e degli operatori di struttura e permetteva di discutere insieme qualsiasi tematica come le abitudini, gli stili di vita, le usanze culturali e alla luce di queste inevitabili diversità trovare un modo per stare insieme nel rispetto di tutte.
In alcuni casi è stato difficile creare un progetto riabilitativo per la persona, in quanto era necessaria una presa in carico multidisciplinare in collaborazione con i servizi territoriali, ma le risorse disponibili purtroppo sono poche e non in linea con le esigenze dei migranti, pertanto hanno portato a ripensare a nuove e differenti modalità operative.
- Quali azioni concrete di integrazione avete sviluppato con i territori e come si sono inserite nei percorsi di supporto psicologico?
Abbiamo creato delle collaborazioni con diverse organizzazioni IAL, ENAIP, LSU, Università della Terza Età, partecipazione alle sagre dei paesi, gruppi sportivi per offrire alle persone la possibilità di aderire a corsi professionalizzanti, prestare servizio alla collettività ma anche trovare dei luoghi di aggregazione e momenti ludico ricreativi.
A livello psicologico è fondamentale avere degli obiettivi per sentirsi capaci, utili per la società e avere un proprio posto nel mondo.
L’integrazione, avviene a partire dalle piccole azioni quotidiane, come semplicemente bere un caffè o un chai (tè tipico dell’Asia), ed è proprio attraverso questi momenti di condivisione e scambio che si sviluppa il senso di appartenenza ad un gruppo.
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