L’evangelista Giovanni introduce il suo vangelo con una riflessione teologica che usa gli strumenti della corrente filosofia greca. Matteo e Luca, raccontando i primi anni di Gesù preferiscono una teologia narrativa, dicono il senso teologico degli eventi attraverso fatti, gesti e parole. Loro parlano con i simboli tradizionali della Bibbia: gli angeli, la nascita, i pastori, la stella, il cammino dei Magi, … per narrare il senso nuovo che feconda l’intera storia umana. Parlano, con linguaggio universale/ popolare, di come una famiglia semplice, illuminata da una sapienza universale, si apre al nuovo, all’inedito, all’opera misteriosa di Dio Padre che intende liberare i poveri e i popoli da tutte le schiavitù.
Come questa famiglia migrante, a cui è donato il Figlio, anche noi possiamo prendere in braccio il Bambino appena nato, con un gesto di tenerezza, di cura, di riconoscimento e di assunzione di responsabilità. Quello materno di Maria lo possiamo immaginare. È quanto ogni levatrice che assiste al parto fa appena tagliato il cordone ombelicale del neonato. Lo affida alle braccia della mamma affinché continui il rapporto caloroso tra corpo e corpo. Nella cultura antica anche il padre aveva un ruolo importante, quello di riconoscere il bambino/a come figlio suo prendendolo/a in braccio. È importante immaginare che anche Giuseppe abbia vissuto questo momento con la tenerezza e la forza che si richiede a ogni uomo maturo che diventa padre. Non è casuale che il vangelo, parlando di Gesù, lo chiami “il figlio del falegname” (Mt 13,55).
Prendere in braccio è accogliere, prendersi cura, far entrare persone e fatti nei rapporti più personali e vitali della quotidianità. È dire nel vissuto che non possiamo più parlare di noi stessi indipendentemente da chi si è incontrato, accolto e abbracciato. Questi sono parte insostituibile e incancellabile della nostra identità e cammino di vita. Si abbraccia la persona di Gesù e quella dei nostri amici sapendo che accogliamo non solo i loro aspetti più graditi e simili ai nostri. Accogliamo la persona intera, il suo modo di stare nella vita e in rapporto con noi. Accogliamo le fragilità e i frammenti di tutti per unificarli, per ricomporli nella cura amorosa. Più che “accettare” noi stessi e le parti di noi meno gradite noi le possiamo “accogliere” per portarle sul cammino dell’unificazione. È questa la carne in cui il Verbo si è umanizzato. Anche Gesù, per diventare “adulto”, ha percorso questa strada nel rapporto con sé stesso, con gli uomini/donne del suo tempo e il Padre. Accogliamo il suo corpo, la fragilità della sua carne, gli affetti, il suo modo di pensare e osservare i fatti e le persone, il suo cuore, la sua volontà, il suo agire nuovo e non sempre coerente con la cultura della società e della religione dei padri, il suo progetto di vita nuova fondata sull’amore gratuito e liberatore.
Se qualcuno ci accoglie ci libera, ci fa crescere. Così noi con le persone vicine e lontane sia geograficamente, che culturalmente e religiosamente. Per vivere una vita autentica l’accoglienza di sé stessi, degli altri, della creazione, di Dio che si affaccia silenziosamente con la sua bellezza, è indispensabile. In Gesù abbiamo la possibilità di “vedere” come Dio si umanizza in un tempo, un luogo concreto, in ogni cultura segnata/marcata dalla religione dei padri. È come se noi, messo da parte lo sforzo titanico di conquista dell’eternità, imparassimo a diventare uomini che accolgono Dio che si è fatto vicino, uno di noi. In questa conversione sta la vita cristiana, che non si limita ad essere una nuova religione, ma propone di liberare il cuore per accogliere Dio che si fa uomo. Lui è presente nei gesti, nelle parole, negli incontri quotidiani, nei rapporti nel mondo del lavoro, dell’impresa, degli affari, della scuola, della cura del creato, della gestione delle spese familiari, della formazione dei figli, del gioco, del riposo e della festa.
Non è credibile dire che siamo accoglienti del Bambino che nasce a Natale e nello stesso tempo respingiamo i bambini e le persone “straniere”. Se i credenti in Gesù vogliono incontrare Dio lo “devono” accogliere come un figlio. Noi possiamo fare da madre a Dio nascente nelle situazioni che viviamo sempre da ospitati. Sono le relazioni, proprio tutte, che trasformano e fanno crescere la vita. Proprio in esse si sviluppano i bisogni personali, il modo unico di abitare la vita, di lavorare, e occuparsi della trasformazione umana della creazione e della società, di argomentare e attingere ad un pensiero adulto e creativo, di fraternizzare e fare famiglia con chi si incontra.
Anche Gesù Cristo accolto non è più straniero, ma compaesano e familiare. I rapporti familiari sono il pozzo da cui attingiamo la fiducia verso gli altri, la fermezza delle convinzioni che si consolidano nella perseveranza. La umanizzazione/incarnazione di Dio ci preserva dalle fughe pseudoreligiose e spiritualiste, ci tiene lontani da ogni tentazione di clericalismo e separazione, ci abilita a leggere i passi/orme di Dio nella storia personale, familiare, ecclesiale e mondiale. Non ci sono altre cartine di tornasole che rivelano l’autenticità della fede cristiana personale ed ecclesiale. Prima di “sapere” cose su Dio è indispensabile sperimentare nella nostra umanità l’accoglienza della sua persona.
Voi Missionari sperimentate la presenza di Dio incarnato nelle persone e nelle loro storie, nella loro fede popolare e fraternità, nella solidarietà tra poveri, nella speranza indistruttibile di “un nuovo cielo e una nuova terra” (Apc 21,1).
Bon Nadâl 2019 e bon Principi dal an 2020.
Segui le attività della Caritas diocesana di Udine sui social
Condividi questo articolo